In quante tavole di Claire Bretécher compaiono sofà, canapè, insomma divani, e letti, e poi poltrone, sempre enormi, accoglienti. A volte questi morbidi arredi nascondono persino il volto di chi parla. Agrippine è spesso sdraiata sul letto a pancia in giù: quante ore ho passato a leggere in quella posizione. Ma tra tutta la mobilia, sfogliando I frustrati, non ho potuto non rilevare la massiccia presenza di divani. I personaggi, ma soprattutto le personagge, ci si accasciano, sembrano essere a un passo dallo sprofondarci dentro. Il divano acquista una forma femminile, e le donne una forma di divano. Io amo i divani, Vorrei fare un’ode al divano.
Cominciando con un ricordo felice, il divano primigenio identificativo stampato sulle toppe che mia madre cucì col filo rosso alla bavaglia, alla busta della bavaglia e alla mia copertina di plaid rosso scozzese che usavamo per il riposino alla scuola materna Agazzi. Che presagio. Il divano è uno dei luoghi in cui ho passato più tempo nella mia vita. Adesso sono passata al livello successivo, l’ho sostituito con il letto per proteggere il divano, che mi serve per avere interazioni con altre persone in una stanza protetta dal disordine caotico che riempie casa mia: è terribile da rivelare ma mi piace stare sdraiata a letto con tre cuscini dietro la schiena a mangiucchiare patatine, cioccolato e altre cose buone che fanno briciole: la stanza del divano, quella dove faccio salotto e ricevo gli ospiti deve essere protetta da tutto questo. È una stanza microscopica, il divano è durissimo, è di Ikea, ma non dovendomici sdraiare ça plane pour moi, a me va benissimo. In quella stanza si svolgono solo rituali sociali. Non c’è posto per vasetti vuoti di budino, bicchieri abbandonati di acqua e menta.
A volte anche la mia camera viene invasa, il mio letto diventa un superdivano: quando siamo in momenti di imprevista intimità e confessione le mie amiche preferiscono stare sedute ai piedi del letto mentre io sto a gambe incrociate ad ascoltarle appoggiata ai cuscini. È una prerogativa di pochissime, carissime amiche. È questo che mi consente di restare lì, svaccata, ad ascoltare partecipe, un po’ come un vecchio inglese che dà udienza, come Sir Magnus dei Mennyms di Sylvia Waugh. A volte penso di avere meno ossa del normale. Mi accascio proprio come nei Frustrati.
Se potessi tutta casa mia sarebbe un infinito divano su cui muoversi gattonando, con botole dissimulate dall’imbottitura da sollevare per estrarne gli oggetti della vita. Potrei sdraiarmi ovunque.
Particolare amore provo per il divano dopo aver finito di lavorare a qualcosa di tedioso o tragico, come quando tornavo a casa dall’ufficio stranieri del comune e volevo spararmi per la povertà, la mancanza di risorse, le storie tragiche: era una gioia impagabile abbandonarsi al suo abbraccio che sembrava dirmi, con una voce di cuscini: «Stai tranquilla, è tutto finito. Sei sulla mia isola.»
Una volta i letti avevano cortine di raso e velluto, mi domando perché non immaginare un divano isolato da cortine morbide e variopinte. Non tanto per consumare un frettoloso e magari segreto rapporto sessuale, no, per creare una bolla.
Il divano bolla può essere comodamente realizzato se si possiede un letto a castello, incastrando il lato di un lenzuolo sotto il materasso del letto sopra: il letto sotto diventa subito una tenda da campeggio, una casina, un’astronave, un posto sicuro e invisibile. Mi piace essere invisibile.
Il divano, che non è letto, può comunque invitare al sonno, ma se costruisci il tuo castello con le lenzuola non lo fai per dormire lo fai per giocare, per leggere: cose da svegli.
Una parola sul triclinio: mi piace stare sdraiata, ma credo che fosse scomodissimo perché è una specie di letto che non ce l’ha fatta. Mangiare in quella posizione appoggiati al gomito doveva essere sfiancante. Anche perché non potevi dire «Scusate mi appoggio all’altro gomito» e trovarti girato verso il muro, con la spalla ai commensali. Magari l’Imperatore se la prendeva.
La chaise longue invece ha un suo perché, non solo in termini di stile ed eleganza ma anche perché è una specie di piccolo divano di salvataggio, una scialuppa per una persona sola.
Persino nel porno le storie lesbiche cominciano spessissimo su un divano, perché il divano evoca coccole e subito un’atmosfera di dolcezza si diffonde, anche se poi potrebbero seguire scene di cunnilingus di 50 minuti. E il sesso vero? Chi non ha fatto sesso su un divano, che poi la gente ci si siede sopra e tu arrossisci dentro, magari fai anche un microscopico sospiro?
Il divano è bello da soli ed è bello in compagnia: questa è anche un’ode ai tavolini da tè, quelli bassi in cui vai sempre a sbattere con le tibie. Quella sensazione meravigliosa di chinarsi insieme a un’amica per prendere la tazza di tè, o sollevare la teiera se la tazza è vuota: trovo immensamente poetico quel movimento che assomiglia a un inchino giapponese e fa convergere le spalle, le teste delle persone che stanno chiacchierando.
È una specie di balletto cerimoniale che avviene per caso, in modo totalmente istintivo.
Certo si può spiegare: faccio io – no lascia che faccio io – ma in realtà è una specie di abbraccio simbolico che deriva dal verbale che circonda il gesto, le parole dette e quelle che si diranno. Si possono capire molte cose sul rapporto tra due persone che bevono il tè insieme su un divano, davanti a un piccolo tavolino. Il tavolino basso contribuisce a creare una sensazione di casa di bambole che rende ancora più intimo il colloquio.
Io parlo molto, in generale, anche nei bar parlo molto, ma non credo di aver mai parlato così tanto come sui divani. A volte anche da sola, proprio come le donne meravigliose di Claire Bretécher, disegnate con quelle linee morbide, spietate, realistiche in modo consolante. Faccio riflessioni come se fossi anch’io in una striscia, senza quarta parete, immaginando un interlocutore intelligente che capisce il mio sconforto, il mio divertimento o la mia sorpresa Queste sono le tre situazioni in cui parlo da sola.
No, ce n’è una quarta, quando perdo qualcosa – e mi capita ottanta volte al giorno – formulo sempre ad alta voce la domanda «Ma dove ho messo il telefono, dove ho messo quel libro enorme, dove ho messo il maglione che avevo in mano trenta secondi fa?». Questa quarta situazione si verifica anche mentre sto in piedi, ma spesso formulo queste domande seduta sul divano, abbandonata e sconfitta, e l’interlocutore che mi farebbe comodo sarebbe uno che mi rispondesse «L’hai lasciato in cucina.»
Non solo nel porno il divano è un preludio fatto mobile, sappiamo tutti che enorme differenza c’è, simbolicamente, tra il sedersi sulla poltrona di fronte oppure sul divano, vicino all’altra persona.
Non c’è niente da fare, il corpo si abbandona, si è più indifesi, più aperti e trovarsi seduti sul divano vicino a qualcuno che non ci piace è una tortura fisica e psicologica. Ci si sposta impercettibilmente, o ci si alza per prendere qualcosa. È imbarazzante.
Sui divani ho letto tantissimo, rigorosamente con le gambe distese e la testa appoggiata al bracciolo, ho preso il tè con le mie amiche, ho spettegolato, ho rivelato la mia infelicità, la mia frustrazione e i miei dubbi: è facile, essere sprofondata contro uno schienale accogliente, con un cuscino morbido sotto il sedere mi dà un’intensa situazione di sicurezza. Odio i divani in pelle, mi sembra sempre di essere nello studio di un notaio, mentre adoro i divani di velluto o di qualunque tessuto morbido e provo molta tenerezza per i divani coperti da un largo telo etnico, di solito coperto di peli di cane o di gatto, ultimo, estremo tentativo di mantenere il divano sottostante in condizioni accettabili.
Mi ha sempre fatto molto ridere la canzone Ça Plane pour moi di Plastic Bertrand quando canta:
«”You are the king of the divan!” / Qu’elle me dit en passant / (hou-hou-oou-oou!) / I am the king of the divan / I am the King of the divan.».
Il pezzo è un pastiche di espressioni gergali, ma in quel punto dice esattamente che «“Sei il re del divano”, è quello che mi ha detto lei tra l’altro, (hou-hou-oou-oou!) / Sono il re del divano.» Io sono The Queen of The Divan.
C’è un’espressione che mi piace molto in inglese: couch potato, patata da divano. Sembra suggerire, però, che sul divano si stia come un tubero inerte e passivo. Invece nelle 333 pagine di Tutti frustrati compaiono centinaia di divani e poltrone giganti, ma i fumetti sono pieni di riflessioni, discussioni, progetti, filosofia, cinismo, desideri. E infatti sul divano si riflette, si chiacchiera, si guardano le serie TV, si sogna a occhi aperti. E quando ci si fa sesso, a volte è un codice per dire: non sono pronta, non sono pronto per un letto. È più impegnativo, anche se più comodo.
Perché, rispetto al divano, il letto è qualcosa di più oscuro, misterioso, profondo. È il posto del sonno, dei sogni, del rigirarsi senza riuscire a far tacere i pensieri nella testa. Il letto è un simbolo potentissimo , è la cosa che Odisseo va a controllare tornato a Itaca, credo dopo aver sterminato i pretendenti della moglie: c’è ancora il nostro letto, quello che ho intagliato in un albero? Il letto è oggetto intimo e misterioso, accoglie la nostra incoscienza, e non è un caso se nel primo Nighmare il tipo viene risucchiato da un frullatore che si apre proprio nel mezzo del suo letto: secondo me sul divano non avrebbe mai potuto aprirsi un frullatore, perché il divano è amichevole di natura e protettivo.
Forse è per quello che al solo dire la parola divano provo un fremito lungo la spina dorsale, un richiamo potente come quello di Cthulhu a stendermi e a prendermi del tempo per me, per guardare una serie, per guardare il soffitto, per pronunciare ad alta voce parole che altrimenti andrebbero perse giù per lo scarico del cervello, per coccolare i gatti. E per dormire, ma dormire il sonno del divano, che è speciale, ignora i rumori circostanti e un sonno spesso è preceduto da un momento ipnagogico in cui tra il sonno e la veglia si vedono cose. È diverso perché lo sai che sei sul divano e per quanto lungo o profondo il tuo non sarà il sonno della notte, ma solo un piccolo pezzo di tempo diurno rubato.
So che molti si addormentano sul divano guardando la televisione: è un’esperienza che non ho mai avuto. Ma è il potere del divano. Poi ci sono quelli che sul divano ci dormono tutta la notte, e vorrei fare loro una carezza, che siano ospiti a casa di qualcuno, che siano insonni crollati davanti a una replica di Friends, che siano fuoriusciti dalla camera matrimoniale: non è un letto, d’accordo, ma è un oggetto che, anche se inanimato, non può non trasmettere una sensazione di abbraccio accogliente, che non ti giudica ma ti protegge, ospitale, quasi si scusa se non può essere più ampio. Se sei triste puoi girarti verso lo schienale ed elencare i tuoi errori.
Le figure di Claire camminano, si siedono a tavolini, ma dopo tre pagine al massimo li troverai accasciati, chi per terra, chi su una poltrona, chi su un divano. È uno dei motivi per cui li amo: si arrendono alla loro natura fragile, sfiancata dai problemi politici o di cellulite, o dalla scoperta che i francesi fanno meno l’amore perché portano i pantaloni troppo stretti. Sono morbidi come i cuscini che li sostengono, alla distanza minima consentita dal pavimento. I loro corpi imperfetti, un po’ sfatti, ricordano vecchi cuscini molto amati e molto usati.
Io, se fossi un divano, sarei di velluto azzurro carta da zucchero, avrei come compagnia un tavolino basso e pericolosissimo, e avrei risolto ogni problema, almeno fino a che non mi sostituissero con un divano nuovo e più bello. Non potrei parlare e ascolterei parlare la gente seduta. Sarebbe una specie di vacanza.
Vive in un condominio affollato e rumoroso. Le sue coinquiline e i suoi coinquilini hanno fatto di tutto nella vita: bibliotecarie, animatrici culturali, speaker alla radio, cantanti, mogli, mariti, amanti, complici… Ora ascolta tutte e tutti e sembra abbia visto, letto e goduto di ogni cosa. Me lei sa che quell’obiettivo non è stato ancora raggiunto e che si trova alla deriva in un punto indeterminato del processo.