Originariamente apparso sul blog di Boris sul finire del 2012.
Se io fossi una persona seria, dopo aver letto Il Boia di Parigi di Barbato e Casertano, primo numero della nuova collana Bonelli intitolata “Le Storie”, ti spiegherei che quella inquietante ma affascinante chiusura sul linguaggio come unico statuto ontologico del reale, che Tiziano Sclavi maneggiava così bene, diventa solo volgarmente reazionaria nelle mani dei suoi epigoni. Da Chiaverotti a Recchioni. Focalizzandomi, per cavalleria, proprio su Paola Barbato.
Andrei a ripescare le sue storie di “Dylan Dog” e ti mostrerei, tavola per tavola, perché sono brutte, perché non funzionano, perché sono reazionarie.
Poi la prenderei alla larga e, raccontandoti di come la Rivoluzione Francese sia stata – secondo la più recente storiografia – il conflitto risolutivo tra due ideologie che si fronteggiavano da un secolo, ti racconterei di quel grandissimo biologo illuminista di Xavier Bichat, autore sul finire del XVIII secolo (guarda caso) di una fondamentale rivoluzione epistemologica, secondo cui la vita è l’insieme delle forze (rivoluzionarie) che si oppongono alla morte. A questo punto, ritirando in ballo purtroppo quella merda nazista di Heidegger e passando poi per Gadamer e per Foucault porterei in evidenza le manchevolezze strutturali e contenutistiche del Boia di Parigi, proprio riguardo al tema che più sembra stare a cuore all’autrice: la morte.
Ti dimostrerei, usando Vladimir Jankélévitch (La morte, edito nel 2009 da Einaudi in ritardo di 43 anni sull’edizione francese), come la consapevolezza (presente anche nelle persone più profondamente religiose che non mentano patologicamente a se stesse) della totale impossibilità di un avvenire escatologico diventi, in quelle pagine, solo una morbosa cronaca necrofila. E la chiuderei lì. Magari con una battuta scatologica sul futuro di una certa idea di fumetto.
Ma.
Non ne ho voglia. Perché se c’è una cosa vera è che sono un cazzaro, sì. E che ai fumetti metto davanti: il vino e la vita. Cioè. Stasera devo fare un salto in Scighera a bere con i miei compagni di sbronze. Quindi, arrangiati.
Ah, dimenticavo. Il titolo di questo pezzo è preso da un verso di una poesia sulla morte di quel fottuto, ma sublime, reazionario di Rilke. Se ti interessa cercatela nel Libro della povertà e della morte (Einaudi,1994), sennò è uguale.
Non fa un cazzo da anni, ma è invecchiato lo stesso. Vive a Milano, e non potrebbe farlo in nessun’altra città italiana. Legge e parla di fumetti dal 1972 (anno in cui ancora non sapeva leggere). Ha una cattiva reputazione, ma non per merito suo. Ama e praticava la boxe, poi si è rotto. Beve tanto in compagnia di gente poco raccomandabile, tipo Paolo con il quale – per colpa di una di quelle bevute – si è ritrovato a curare QUASI.