Mentre continuano a picchiarlo, lui si stupisce che la sua paura non basti a fargli chiedere pietà. A ogni colpo di bastone che gli arriva sulla testa pensa di essere morto. E invece no. È ancora lì, a riceverne un altro. Finché non gli tirano quello che gli scardina la mascella, allora per il dolore sviene. Forse lo credono morto e se ne vanno. E invece no. Nonostante le botte che gli hanno dato quei bastardi fascisti, lui è ancora vivo.
Sono arrivati in sei, sulla loro Lancia Lambda, in via Cadore 35 a Milano, uno è rimasto in macchina tenendo il motore acceso, gli altri hanno salito di corsa le scale e sfondato la porta di casa sua. E hanno cominciato a picchiarlo senza tregua. Meno male che la sua famiglia è in vacanza a Gavirate, così sua figlia non ha assistito al massacro.
Poi, se ne sono andati, altrettanto di corsa, lasciandolo lì, mezzo morto. Solo allora interviene qualche vicino e lo soccorre, per portarlo all’ospedale.
Ieri il giornale per cui lavora, “L’Avanti”, è stato soppresso. Oggi, primo novembre 1926, volevano fare lo stesso con lui. Ma non ci sono riusciti: Giuseppe Scalarini, la matita più beffarda d’Italia, è ancora vivo.
L’avrai vista mille volte: sul tuo manuale di storia dell’ultimo anno delle superiori, a corredo di qualsiasi testo antimilitarista, sui volantini pacifisti. È un’immagine potentissima. Una donna in nero, vedova o madre in lutto, è prostrata davanti a un cannone fumante. La didascalia dice solo: la guerra.
È un disegno che fa parte del nostro immaginario ogni volta che pensiamo alla devastazione e ai lutti della guerra, la cui potenza iconica trascende ormai il suo autore, del quale, la stragrande maggioranza di coloro che conoscono e ricordano quest’immagine, non sa nulla.
Quando il 5 agosto 1914 Giuseppe Scalarini pubblica questo disegno sull’”Avanti”, la Prima Guerra Mondiale è appena cominciata, i tedeschi hanno attaccato Liegi che capitolerà 2 giorni dopo, ma in quel disegno c’è già tutta la disperazione e il costo sociale dei prossimi anni.
Sono più di quindici anni, da quando nel 1898 ha fondato il giornale satirico “Martin Cocai” che Scalarini fa questo mestiere. In questi 15 anni ha realizzato quella che, nel campo della caricatura e della vignetta satirica è stata una vera rivoluzione. Ha operato, e per questo a guardarli oggi i suoi disegni sono ancora così attuali, una spersonalizzazione della caricatura, così in voga in quegli anni, trasformando le deformazioni fisiche dei personaggi storici bersaglio della satira, in un segno universale il cui compito non era tanto strappare un sorriso, quanto suscitare nel lettore una beffarda condanna storica.
Questa operazione non era sfuggita a un acutissimo osservatore come Gadda. Che, in un romanzo del 1932, La Meccanica, dedica svariate righe alla descrizione di alcune vignette di Scalarini, definendo – con la sua consueta ricercatezza lessicale – la sostanza del suo segno come una ipotiposi.
«E le ipotiposi di Scalarini pervenivano regolarmente ai destinatarî, seguendo il corso de’ pubblici accadimenti: l’undici aprile il Lavoratore, servendosi del ginocchio sinistro, spezza una sciabola insanguinata e la gitta nella cassetta della spazzatura dove c’è già, rotto e contorto, il suo bravo fodero, due fronde risecche, una di quercia una di alloro, nonché la bandiera dello Stato Italiano.
Le vignette di Scalarini, talvolta, lo colpivano: non volendo, ci pensava di notte. Il 15 novembre, in occasione d’un assegnamento straordinario di quattrocento milioni al bilancio della guerra, si vedeva il Proletariato, un uomo robusto, tetro, tirare a mezzo d’un giogo (da un bue solo) che avea sulle spalle, un cannone da bamberottoli. Sull’affusto sedevano a cavalcioni, con enormi pance e bocche oscenamente sdentate, aperte in un ghigno sinistro, prima il Capitalismo, cilindro in traverso e fascia tricolore sul ventre, poi, dietro, il Militarismo, nelle parvenze d’un Marte-Vitellio, e infine il Clericalismo simboleggiato da un prete pesantissimo, la tunica disbottonata affinché la trippa possa dilatarsi a suo agio. Quest’ultimo detto altrove, nella letteratura dell’epoca, alla voce: “maiale nero”.»
Per questo motivo il fascismo, che tollerò autori come Giovanni Mosca o Mercello Marchesi, non consentì a Giuseppe Scalarini, non essendo riuscito a eliminarlo fisicamente, di pubblicare più niente.
Appena uscito dall’ospedale in cui era stato ricoverato per un mese dopo l’aggressione del novembre 1926, Giuseppe Scalarini viene arrestato, processato per direttissima come sovversivo e condannato a 5 anni di confino, che trascorrerà tra Ustica e Lampedusa.
Tornato a Milano, sulla soglia dei sessant’anni, gli viene espressamente vietato di pubblicare alcunché. Per i Romani l’extrema aetas, la vecchiaia, cominciava proprio a sessant’anni e per Scalarini è proprio così: la vittoria del fascismo, che in questi anni trenta di pieno consenso appare come una realtà inestinguibile, ha piegato la sua fiducia nelle sorti del socialismo; le conseguenze e i danni permanenti, come la mascella fracassata, delle botte squadriste pesano su ogni sua giornata: ma più di tutto è il divieto di pubblicare che lo fa sentire vecchio e inutile.
Ma il disegno è la sua vita e rinunciarvi sarebbe darla vinta ai fascisti. In questi anni bui di dolori e lutti (nel ’43 perde la moglie e nel ’45 la figlia più giovane) realizza, oltre ad alcune storie pubblicate sul “Corriere dei Piccoli” con uno pseudonimo, i suoi tre capolavori.
Ne vedrà solo uno pubblicato in vita, nel 1933 con il nome della figlia maggiore: Le avventure di Miglio, una sorta di proto-picturebook in cui racconta le vicende di un bambino piccolo come un grano di miglio (Bompiani lo ha riproposto in una fugace edizione nel 1980, restituendogliene la paternità). Degli altri due capolavori, uno vedrà la luce postumo, Le mie isole, in cui attraverso bellissime sequenze panoramiche, racconta la storia del suo confino.
L’ultimo, quello più incredibile, in cui racconta mettendo nei suoi disegni tutta l’ingiustizia della vecchiaia, la storia di Matusalino un personaggio che nasce vecchio e muore bambino, è ancora inedito. È un’opera impietosa, senza speranza: nel momento che il protagonista passa dall’oscuro tempo della sua vecchiaia alle meraviglie della giovinezza, lo attende la morte.
Mentre con timore reverenziale lo sfogli (puoi farlo se lo richiedi all’archivio Scalarini di Gavirate gestito dalla famiglia) capisci perfettamente cosa intendesse Gadda e soprattutto ti rendi conto di quanto, questo libro illustrato che mai ha avuto un edizione, abbia beffardamente influito su tutto
Non fa un cazzo da anni, ma è invecchiato lo stesso. Vive a Milano, e non potrebbe farlo in nessun’altra città italiana. Legge e parla di fumetti dal 1972 (anno in cui ancora non sapeva leggere). Ha una cattiva reputazione, ma non per merito suo. Ama e praticava la boxe, poi si è rotto. Beve tanto in compagnia di gente poco raccomandabile, tipo Paolo con il quale – per colpa di una di quelle bevute – si è ritrovato a curare QUASI.