Quell’orda barbara, quelle cinquanta lingue e storie, confluiscono nel crogiuolo passando per un unico ingresso. Come cammelli per la cruna di un ago.
La mattina del primo gennaio del 1892, la quindicenne Annie Moore si affaccia sul ponte della nave passeggeri “Nevada” con gli occhi colmi di lacrime e di speranza. Accanto alla ragazza ci sono i due fratelli minori, Anthony e Phillip. Le gambe molli per il lungo viaggio transoceanico e i piedi che non toccano terraferma da dodici giorni. La nave è salpata dal porto di Cork, nella natia Irlanda, il 20 dicembre e, ora, i tre ragazzi guardano ammirati la Dea bianca. Quella statua, simbolo di libertà, è stata inaugurata solo cinque anni prima, è sostenuta da uno scheletro di ferro progettato dal francese Gustave Eiffel, e punta il suo sguardo bonario verso il sole che sorge.
Quando si aprono i cancelli di Ellis Island, qualcuno grida: «Prima le signore!» Gli uomini che si accalcano davanti all’ingresso, per cavalleria o forse solo per paura, fanno largo ad Annie che, nel giorno del suo quindicesimo compleanno, è la prima viaggiatrice a essere registrata dalla neonata stazione di immigrazione.
Entro la fine dell’anno, i registri di Ellis Island censiscono 445.987 individui, provenienti dall’Italia, dall’Impero Austroungarico, dalla Russia, dalla Germania, dall’Inghilterra, dal Canada, dall’Irlanda e dalla Svezia. Negli anni successivi, il numero cresce progressivamente e, fino al 1933, si registrano oltre 14 milioni di ingressi, che portano con sé gruppi, lingue, storie e rivalità di sangue per alimentare il crogiuolo da cui sorgerà il vero americano.
Dopo che la procedura di registrazione si è conclusa, Annie aspetta i due fratelli. Con loro sale sull’imbarcazione che li farà approdare a Manhattan. Mentre l’aria fredda e salata le si stringe attorno, liberandola dal ricordo delle mani del medico che l’ha ispezionata e visitata, la ragazza guarda il panorama che le si para di fronte. Lo skyline che New York svilupperà negli anni a venire non è immaginabile, ma già svettano un paio di edifici: la chiesa Trinity Church, collocata all’incrocio tra Wall Street e Broadway e, soprattutto, il New York World Building, tra Park Row e Frankfort Street, una strada che oggi non esiste più. Il World Building, con i suoi oltre 94 metri di altezza (che arrivano a quasi 107, se si comprende nella misura anche l’antenna) è l’edificio più alto della città e ospita la redazione del “New York World”, il quotidiano di Joseph Pulitzer.
Annie pensa a come sarebbe bello guardare il mondo dalle finestre di quella torre maestosa, capace di rivaleggiare in altezza con la zikurrat di Babilonia, mentre con i fratelli raggiunge il numero 32 di Monroe Street, dove i genitori, immigrati anni prima, la stanno aspettando. Con il grattacielo negli occhi, la ragazza va a vivere in un tenement, un condominio fatiscente di cinque piani in cui si assiepano corpi, povertà e desideri.
Note:
«Quando i nostri viaggiatori si chiamavano pionieri» è la traduzione italiana di un verso della canzone Ellis Island (Fabio Barovero e Luca Morino) del gruppo torinese Mau Mau. Il brano apre Viva Mamanera (VoxPop/Emi, 1996), quarto album del gruppo torinese. Nello stesso LP compare la canzone Corto Maltese.
I dati sui flussi migratori verso Ellis Island vengono dal sito del parco nazionale di Ellis Island e da quello della Fondazione Statua della Libertà / Ellis Island.
La storia di Annie Moore, prima immigrata passata attraverso Ellis Island, è uno di quei frantumi su cui si fonda la mitologia statunitense contemporanea. Oltre alle indicazioni riportate nei due siti indicati sopra, mi sembra di particolare interesse un articolo pubblicato dal “New York Times” il 14 settembre 2006: Sam Roberts, “Story of the First Through Ellis Island Is Rewritten” (reperibile nell’archivio online del quotidiano). Nel 2001, il compositore inglese Brendan Graham ha dedicato ad Annie Isle of Hope, Isle of Tears, una canzone didascalica che è diventata rapidamente un inno alla memoria migrante:
«In a little bag, she carried all her past and history
And her dreams for the future in the land of liberty
And courage is the passport when your old world disappears
But there’s no future in the past when you’re 15 years.
Isle of hope, isle of tears
Isle of freedom, isle of fears
But it’s not the isle you left behind
That isle of hunger, isle of pain
Isle you’ll never see again
But the isle of home is always on your mind.»
Scrive e parla, da almeno un quarto di secolo e quasi mai a sproposito, di fumetto e illustrazione . Ha imparato a districarsi nella vita, a colpi di karate, crescendo al Lazzaretto di Senago. Nonostante non viva più al Lazzaretto ha mantenuto il pessimo carattere e frequenta ancora gente poco raccomandabile, tipo Boris, con il quale, dopo una serata di quelle che non ti ricordi come sono cominciate, ha deciso di prendersi cura di (Quasi).