Mai letto Gargantua e Pantagruele? Non preoccuparti, non ti parlerò della monumentale opera di Rabelais, ma di poche pagine del libro quarto.
Pantagruele si spinge con la sua barca ai limiti del Mar Glaciale. Durante una sosta il silenzio è rotto da voci che sembrano galleggiare nell’aria, provocando paura e sconcerto nell’equipaggio. Tutto intorno non si vede nessuno, eppure si odono quei suoni. Solo lui non è spaventato. Le parole, dice, hanno una natura animata ed errabonda, così può accadere che, nei momenti più rigidi dell’inverno, esse ghiaccino, così da poterle sentire solo alla stagione del disgelo. E spiega che da quelle parti, mesi addietro, c’era stata una battaglia. I suoni del conflitto, levatisi verso il cielo come nube di fumo e come nube di fumo destinati a svanire in quell’azzurro nulla, avevano assunto miracolosamente una forma solida. Nel vento erano rimasti il clangore delle armi, le grida e i lamenti dei feriti, i nitriti dei cavalli, sospesi nell’aria come fiocchi di neve.
Pantagruele coglie nell’aria qualche manciata di quelle parole, rovesciandole sul ponte. I marinai ora non sono più intimoriti ma curiosi, e le stringono fra le mani. Il calore le libera da quello stato di innaturale rigidezza, e le parole si sciolgono. Si fanno ascoltare, raccontano una guerra combattuta in terre desolate. E nei marinai la paura lascia il passo alla compassione.
Tieni a mente questo episodio. Ci servirà dopo.
Ora, seguimi. Ti parlo di poco meno di vent’anni fa. Ero a Roma, per parlare di qualcosa di cui di solito mi occupo. Non ricordo cosa di preciso, non è importante. Ero stanco, e presi il treno di ritorno cominciando a percorrere le carrozze alla ricerca di un posto libero, guardando a destra e a sinistra. Lentamente, senza fretta, col consueto e comunissimo desiderio di stare da solo. Non notai più di tanto una ragazza che, fra borsetta valigia e libri, occupava da sola un intero scomparto. Stavo già passando oltre, quando spostò la sua borsa.
«Se vuole è libero», disse indicandomi il posto con un sorriso che mi sembrò dolce e triste.
Ringraziai e mi sedetti davanti a lei. La donna aveva già spento il suo sorriso ed era tornata a quel riserbo che hanno un po’ tutti i viaggiatori. Guardandola meglio m’accorsi che non era giovane. Pochi fili bianchi risaltavano fra i suoi lunghi capelli, neri e lisci. Sopra agli zigomi affilati spuntavano due grandi occhi di cui non riuscivo a identificare il colore. Era una bella donna, poco più di quarant’anni, il fisico agile e proporzionato la faceva apparire non gracile, ma delicata e leggera. Di lei mi colpirono quel primo sorriso e le mani sottili, e mi fecero tenerezza le prime rughe attorno agli occhi. Stava attraversando la stagione in cui la bellezza che comincia a sfiorire appare ancora più intensa.
Appena partito il treno chiuse gli occhi, cercando di dormire. Il caldo artificiale toglieva le forze e il movimento lento e regolare dei vagoni le faceva muovere il capo rapito dal sonno, le gambe incrociate e le mani abbandonate sulle cosce. Non so se fu la noia a far sì che io la fissassi mentre cercava di assopirsi, o se fu proprio quel sorriso dolce e triste. Non ebbi nemmeno il tempo di interrogarmi, perché le sue palpebre si aprirono e la donna mi lanciò uno sguardo che spezzò ogni poesia.
«Guardi, se ha qualcosa da dirmi le conviene parlare», disse con durezza.
«Come?»
«Intendo dire che se vuole fare tutto il viaggio a fissarmi non le conviene. Non so dove scenda lei, ma io scendo a Rogoredo. Sono stanca, vorrei dormire, e se lei mi pianta gli occhi addosso non riesco.»
Imbarazzato e ferito farfugliai le mie scuse, mentre lei tornò al suo finto sonno, distante mille miglia da me. Ma presto mi resi conto che quella ferita bruciava più del dovuto. Restai in silenzio per un po’, poi non riuscii più a resistere. Non so dove trovai il coraggio, ma le parlai.
«Mi scusi per prima. Non volevo fissarla. L’ho guardata, sì, ma non l’ho guardata solo perché è bella, ma perché mi è sembrata triste e stanca, molto stanca. Mi sono domandato quale fosse la causa della sua infelicità. E ho pensato che non dovrebbe essere tanto difficile rivolgersi a un altro essere umano e dirgli semplicemente: “Mi scusi. Lei mi sembra terribilmente triste. Ed è brutto essere tristi e soli. E io non voglio rimanere col dubbio della sua tristezza, o col dolore di non aver saputo o potuto fare nulla, per lei”… E invece è difficile, nessuno lo fa, non rendersi ridicoli è più importante di fare qualcosa per qualcuno. Poi ho pensato che lei poteva rimanere prigioniera dell’idea che si era fatta di me, quella di un uomo talmente timido e impacciato da non riuscire a tentare l’approccio più banale. Per questo ora le ho parlato. Ma mi scusi, la prego. Non volevo offenderla.»
Avevo parlato d’un fiato e ora sentivo la gola secca, ma avevo trovato le parole giuste per sciogliere quella durezza che mi aveva ferito, perché la donna rispose subito.
«Sono io a doverle delle scuse. Lei è un uomo gentile, e io non sono più abituata alla gentilezza. Non sono più abituata a molte cose.»
Fece un cenno che voleva essere definitivo, ma riuscì solo ad apparire stanco.
«Sapesse a cosa sono abituata, invece…»
Si chiuse di nuovo nel silenzio, lo sguardo perso oltre il finestrino.
Abbassai gli occhi. All’anulare portava due fedi nuziali. Indossava una camicia coi polsini molto lunghi, ma continuava a sistemarseli e ad allungarseli fino quasi a coprire il dorso delle mani. Mi sembrò di scorgere delle cicatrici, sui polsi.
Non le chiesi nulla, non sapevo come penetrare il suo silenzio. Fu lei a ricominciare a parlare, senza distogliere l’attenzione dal paesaggio monotono oltre il vetro.
«E poi non è vero che mi sono abituata. Al carcere non ci si abitua, e men che meno a…»
Si fermò un attimo, poi riprese a parlare, stavolta guardandomi in faccia.
«Da poco sono uscita dalla prigione, sa? Sta parlando con un’ex galeotta. Se le dà fastidio parlare con una che è stata in galera, la comprendo. Semplicemente, me lo dica.»
“Galeotta” per me era una parola vuota. Alle rigide categorie mi sono sempre ribellato e così pure alle semplificazioni banali. La vita è una brutta bestia da giudicare, mi ero sempre trattenuto dal farlo e non avevo intenzione di disattendere quel principio. La mia risposta fu però molto meno articolata.
«Non si preoccupi, parlare non mi dà mai fastidio. Con nessuno… Ah, io mi chiamo Francesco.»
«Io Sabina», rispose, dandomi la mano in modo sfuggente. Di solito mi dà fastidio, ma quell’atteggiamento elusivo non era il segno di vera diffidenza. Mi sembrava solo paura di ristabilire un rapporto umano da cui, evidentemente, era stata tenuta lontana per troppo tempo.
Andammo avanti a parlare. Ma “parlare” è un verbo zoppo, per quella conversazione. I miei timidi tentativi di entrare in contatto con Sabina si infrangevano contro un muro di silenzio, di cui lei per prima sembrava dispiaciuta. Ciò nonostante erano proprio quei silenzi a parlare per lei.
Per questo le raccontai quel brano di Gargantua e Pantagruele, in uno sfoggio di cultura che mi uscì meno spocchioso di quanto si possa pensare. Le sue parole, le dissi, mi sembravano giungere dallo stesso silenzio misterioso e ghiacciato. C’era una sola differenza: a gelare la sua voce non era stato un inverno boreale, ma un freddo ancora più profondo e sconosciuto. Io m’ero calato nei panni di Pantagruele, cercavo di raccogliere le sue parole per sciogliere quel gelo tenace.
«Ti parlo con segnali di fumo?», chiese. E accompagnò la frase con un sorriso, stavolta rilassato e non privo di una certa malizia, non so quanto voluta.
«In un certo senso sì.»
Fu così che mi raccontò tutto. Oddio, tutto… Ciò che le andava di dire, frammenti e schegge di un abisso da cui fuggiva, con destinazione ora sconosciuta e spaventosa in quanto sconosciuta.
Nei pressi di Rogoredo mi sembrò smarrita.
«Tu prosegui?» chiese.
Non so davvero se in quelle parole dovessi leggere un invito. Sinceramente non credo. Tu che leggi non ridere. Non si conquista una donna con Gargantua e Pantagruele, cazzo. Ma qualsiasi risposta che non fosse stata «sì» mi avrebbe fatto sentire in colpa.
Non ci eravamo scambiati né telefono né indirizzo, a malapena sapevo il suo nome. Non l’avrei più rivista, ne ero consapevole, e la guardai scendere con amarezza.
Ora forse avrai qualche domanda. Risponderò come posso a quelle che posso.
No, non ci sarà nessun “ha detto/voleva dire”, stavolta, perché tutto ciò che ti ho raccontato si basa su parole che non ebbero fraintendimenti né abbisognano di spiegazioni o interpretazioni.
È storia vera oppure ho mentito? È storia vera, per come la memoria la sa ricostruire. Ma l’episodio lo ricordo. Come un sapore o un profumo che provi a trattenere. Ho mentito meno possibile e solo dove un rigurgito di pudore mi diceva essere necessario.
No, non si chiamava Sabina. La città dove doveva scendere non era Milano, ma un’altra stazione intermedia lungo il mio percorso.
Quanto era stata in carcere e perché? Non ti dirò il reato. Era stata in carcere un po’ di anni, davvero non ricordo se cinque o sette.
La seconda fede al dito? Sì, era del marito, che non c’era più. Sì, i polsi erano davvero segnati da cicatrici, procurate durante la detenzione. Nella sua storia c’entrava anche un figlio, che le era stato tolto. Il cognome? Non lo chiesi e non me lo disse.
Davvero non l’ho più rivista? Sì, andò così. Mi ringraziò, la vidi scendere, non dissi nulla. Di tutta la mia vita, l’unico gesto che giudico romantico.
Vive una crisi di mezza età da quando era adolescente. Ora è giustificato. Ha letto un bel po’ di fumetti, meno di quanto sembra e meno di quanto vorrebbe. Ne ha pure scritti diversi, da Piazza Fontana a John Belushi passando per Carlo Giuliani (tutti per BeccoGiallo) e altri brevi, specie per il settimanale “La Lettura”. Dice sempre che scrive perché è l’unica cosa che sa fare decentemente. Gli altri pensano sia una battuta, ma lui è serio quando lo dice.