All’angolo tra Rue de Riquier e Boulevard du Mont-Boron, prima dell’incrocio che trasforma la stessa Rue de Riquier in Boulevard de l’Armée des Alpes, c’è la macelleria di Marcel.
Due saracinesche inconfondibilmente rosse, quando è chiuso, sollevate a condividere uno spazio su un bancone della carne, sempre ricco di merce. Il pavimento di piastrelle bianche, pericolosissimo con le Clark’s ai piedi, è costantemente bagnato per il continuo sciacquare battilarde pregne di sangue rappreso.
Marcel ha avuto un incidente prima della chiusura estiva del 2019 e l’anca non è più tornata a posto procurandogli un male alla gamba che lo costringeva a una fatica immane per un lavoro che necessita di ore e ore di posture in piedi. A settembre non ha più riaperto nonostante i figli che già lo aiutavano in bottega, per i quali evidentemente tagliare carcasse di animali morti non era la massima aspirazione nella vita.
Ma non è di Marcel che ti voglio raccontare.
Vieni oltre con me, leggermente più in là.
L’angolo lo giriamo e, superata la “Droguerie quincaillerie hygiène professionnelle Thonnon” e prima del “Garage Chambin”, ti porto al “Le Classico”, un salon de thé che ti fa fumare il narghilè.
Due entrate, una più piccola, un’unica vetrata posta indietro per lasciare spazio di fumare coperti se piove, altrimenti le altrettante riconoscibilissime sedie di plastica rosse campeggiano sullo striminzito marciapiede di Boulevard du Mont-Boron.
Sulla tenda bordò stinto la scritta giallo arancio “Le Classico” con un pallone a fianco.
Mai vista una donna là dentro, ma di partite da fuori parecchie.
Partite di Marsiglia e Bordeaux principalmente, più della stessa Nizza abitata, forse per questioni tutte loro, di comunità o parentele, chissà.
Di certo, la mattina dopo, i mozziconi sul marciapiede e sul pavimento non si contano.
Un on the road in Portogallo, nel luglio 2018 da Lisbona alla regione Algarve.
Uno vede sempre le incantevoli spiagge di Benagil e di Marinha e io per prima ti dico vacci, ma anche di corsa perché ti rapisce il fiato e te ne innamori (se riesci a non avere un ipotermia nell’entrare nell’acqua dell’Atlantico) ma anche l’entroterra è molto bello.
Un entroterra attraversato su una Opel Corsa grigia del 2010, su un’auto guidata centinaia di volte da mani e volti e risate o pianti diversi, un’auto che non ha nulla di quotidiano, di mio, nulla in cui possa riconoscere qualcosa della mia storia, pescata in un autonoleggio di Lisbona e lasciata all’aeroporto di Faro come non avesse un’anima.
Non ricordo esattamente dove fossi, stavo raggiungendo il sud e il confine dalla Spagna era a meno di un’ora da dove mi trovavo in quel momento e ricordo che in questo paese di poche case abbagliate dal sole, in un orario drammaticamente tardo per il pranzo ma non così tardo per una birra fresca, mi fermai in un bar lungo la strada che in cima a una salita portava qualche chilometro più giù a una spiaggia.
Il ragazzo vestiva di nero, capelli a spazzola, orecchini ovunque, braccialetti di pelle, catena penzolante da motociclista punk rock e una carnagione chiara che sotto quel sole significava eritema assicurato. Curioso che poi servisse principalmente cocktail colorati piuttosto che damigiane di birra per i tipi come lui. A ogni modo, era di una gentilezza squisita e nonostante dovesse preparare il locale per il dopo spiaggia fece qualche battuta con me e chi era con me in quel viaggio, soprattutto quando una cabriolet bianca con targa spagnola ruggì sull’asfalto deserto con una sgasata grezza e poco elegante. Il ragazzo fece un ghigno, apostrofò con un muuuuu i turisti spagnoli seguendoli fino alla curva, ci guardò e sorrise ancora. Non aveva nessuna intenzione di scusarsi, ci disse che per i portoghesi gli spagnoli erano delle mucche, mandrie che seguivano non si sa bene cosa e che dove passavano lasciavano la stessa concretezza dell’animale. Cioè merda e anche bella grossa. Non certo un complimento. Non fu nemmeno la prima volta che incontrando la gente portoghese e parlando con loro un nemmeno poco velato orgoglio lusitano veniva fuori palesemente, dispiaciuti che la loro bella lingua fosse meno parlata dello spagnolo così incomprensibilmente di moda, dissero.
Il ragazzo intanto aveva acceso la televisione.
Nello schermo, una balena colorata, per me riconoscibilissima, un ciclista con indosso la maglia gialla e il Tour de France nelle sue tappe decisive.
Appoggiato all’entrata, invece di osservare fuori, lo sguardo del ragazzo era rivolto ai corridori mentre si accendeva una sigaretta rollata mentre dava delle mucche agli spagnoli.
Nello stropiccio del quotidiano, nell’angolo in alto a destra, l’immancabile alone di caffè.
Non ho un orario prestabilito, ma il mio tavolino è sempre quello: vicino alla colonna fornito di una presa quando porto il Mac per scrivere un articolo o per ricaricare lo smartphone quando disegno e schizzo sulla moleskine.
“Alè Tran Tran” mi fa compagnia, è spesso nelle mie immagini sovrapposte a ciò che osservo, così reale nel bianco e nero di Mattotti a raccontare la vita da bar in uno degli episodi dei due albi.
Insieme al “Guerin Sportivo” è forse il fumetto che più di tutti racchiude l’essenza, o almeno una parte di essa, di quello che per me è il calcio e ciò che ruota intorno al movimento provinciale, entrambi letture imprescindibili nell’onesta formazione di narratrice di storie di sport.
Probabilmente il Bar Sport più famoso è quello nato nelle pagine di Stefano Benni e non c’è bisogno che ci sia una Luisona nella vetrinetta, basta un biliardino a rendere qualunque bar un campo di battaglia ed elevarlo a così amata dicitura, Bar Sport appunto.
Sotto un sole di maggio, nel recinto dei teli elastici al “Parc Castel des Deux Rois” a Nizza, coi bambini spediti a saltare, una monetina da 1 euro dentro la fessura e lo stock del funzionamento delle palline che rotolano libere per almeno 10 possibili gol.
La posizione del corpo automaticamente si appoggia storta al portiere e ai difensori, la mano sinistra fissa sul portiere e la destra a giostrarsi nelle altre tre fila di giocatori, una posizione che il mio corpo non ha nemmeno avuto bisogno di decifrare, al contrario istantanea, quasi genetica.
Sotto un sole di maggio, biliardino, birra appoggiata al piano vicino alla porta ed è subito Bar Sport.
Ogni gol è un festeggiamento alla Cristiano Ronaldo, ogni sbaglio sono le mani sul volto e l’accasciarsi alla Roberto Donadoni dopo il rigore sbagliato contro l’Argentina a Italia ‘90.
Una la perdo comunque giocandola e scaldandomi, l’altra la stravinco.
È un maggio diverso, quello di un’altra birra, di diverse birre, della moleskine disegnata con ciò che osservavo, di tutte le sigarette fumate riempiendo il posacenere targato Cinzano, delle sedie di nastri di plastica elastici, dalla radio I treni di Tozeur cantata da Franco Battiato e Alice, il nonno e lo zio sono ancora vivi e giocano a carte, sigarette immancabili pendenti dalle labbra, di bocce e di biliardi, di caffè con la persona che sposerò in un febbraio freddo e nebbioso davanti alla spiaggia di Rimini, di risate e di tristezza, di pareti in legno e pavimento a graniglia, di partite e di finali.
Non è un Bar Sport preciso, nella vita ne ho frequentati tanti, tutti diversi, tutti nei quali ho scritto e disegnato qualcosa, tutti un pezzettino di cuore e tante, tante partite. E tanto, tanto fumo quando anche io ero fumatrice.
Anche nell’ultimo, il Bar Pizzeria Freddy non mancherà il mio passaggio dal bar: l’alone di rosso che a pagina 9 colora, seppur asciugato, di rosso poi diventato rosato rendendo la carta ancora più fragrante, è la mia Lacrima di Morro d’Alba.
Rimini 1975, disegnatrice di fumetti, fumettara, illustratrice. Pubblica dal 1999. Qualche titolo: la fanzine “Hai mai notato la forma delle mele?”, le graphic novel Io e te su Naboo e Cinquecento milioni di stelle, il fumetto sociale Dalla parte giusta della storia, il reportage a fumetti scritto dalla giornalista Elena Basso Cile. Da Allende alla nuova Costituzione: quanto costa fare una rivoluzione?.