Dove si porta alla definitiva conseguenza l’iniziale tentativo di definizione di che cos’è il fumetto.
Originariamente pubblicato come quinto capitolo de Il peso del fumo, 2016.
Senza essere carducciano, che il resto del poema è ben poca cosa e della sua poetica l’unica rilevanza è, alla fin fine (pur tra affettati satanismi e genuflessioncelle d’ordinanza) il soldo: quello dei mercenari accademici; ossia pura retorica reazionaria, ben pagata quando canta scatologiche elegie al mercato dei santini; come in fondo è pure, ammettilo, quello dei fumetti – dove trovare infatti, oltre la parrocchia, un più fertile mercatino dell’iconografia clerico-fascista se non nelle edicole tra i giornaletti a fumetti? Ce la vedi l’attinenza!
Senza essere carducciano, dicevo, faccio miei due versi del vate avvinazzato: «che mi importa di preti e di tiranni? Ei son più vecchi de’ lor vecchi dei…», che mi servono poi a introdurre un breve discorso (lo dico subito: apodittico) su una certa tendenza del fumetto. E cioè quella di essere, in massima parte, il sacerdote ufficiante la religione di quel dio grasso e porco e tiranno che è il divagare.
Intendiamoci: cito a memoria da Il canto dell’amore. Devi perdonarmi, ma in pochissime occasioni il Carducci mi commuove. Questa disperata resa al potere, insieme a pochi versi sul vino di Valtellina, ha la capacità di muovervi a comprensione per la contraddizione di chi un tempo inneggiante a satana soffoca nell’epidemica occasione delle odi a reginette d’Italia e figlie di presidenti del consiglio. Ce n’è anche oggi. Quello che mi fa incazzare è che questi odierni sembrano manco smossi dai sensi di colpa che invece aveva un Carducci. Leggiti Odi Barbare e Rime e Ritmi (innumeri le edizioni economiche) e butta a cesso tutti i minchioni contemporanei.
Se aveva ragione Proudhon (nel suo Du principe de l’art e de sa destination social, del 1865, lo trovi presso le Editions du Reèl, non mi risulta purtroppo ne esista un’edizione italiana) e ce l’aveva eccome, convinto della storicità delle forme estetiche e del loro conseguente essere espressione della visione del mondo della classe dominante, non possiamo stupirci se la maggior parte dei fumetti prodotti oggi in Italia sono ispirati da un’univoca politica culturale: quella aziendale. È un dio minore il divagare, e il suo compito è di renderci sopportabile la nostra vita dominata dal mercato globale. Azzerando ogni pulsione alla curiosità e all’intelligenza del reale. Quindi alla sua messa in discussione. Usando quali mezzi la banalità dell’avventura serializzata e l’assurdo quotidiano trasformato in commediola generazionale. E con questo non intendo sminuire la vera cultura popolare paraletteraria (con tutto che il fumetto è paraletteratura solo per qualche professorina da scuola di fumetto, appunto), che anzi bene coglie – in certe sue manifestazioni più consapevoli – lo stato attuale del nostro esistere (non lo amo ma devo rimandarti, a questo proposito, a due imprescindibili raccolte di saggi di Valerio Evangelisti, Alla periferia di Alphaville e Sotto gli occhi di tutti, entrambi L’Ancora del Mediterraneo, rispettivamente 2001 e 2004); intendo invece sottolineare quanto la maggior parte della produzione fumettistica sedicente popolare non sia, oggi in Italia, che una sequela di squallide operazioni commerciali appiattite ed adeguate alla supposta acerbità intellettiva del lettore.
Siamo orfani (nonostante il suo trascurabile e stucchevolmente moralisti stico ritorno per mano di Pellejero e Diaz Canales) dell’eroe più fantastico, metafisico e irreconciliato che il fumetto abbia mai avuto: ci manca (e a causa delle scelte degli aventi diritto ci mancherà credo a lungo) Corto Maltese.
Siamo ostaggi del più confcommerciale ed episcopale di tutti: Tex Willer. È una questione scolastica: l’odore della merda è riconducibile più a una formula economica che a una formula chimica. La chimica, al limite, ci spacca il fegato: mica le importa a lei di mozzarci la punta delle ali della nostra bella libertà. All’economia sì. L’economia ci piace di tenerci belli in salute: così siamo più produttivi e consumativi senza pensiero. In più se non ci ammaliamo può chiudere gli ospedali che le costano troppo; così le piacciamo: sani, lavoratori e poi morti. Che non costiamo nulla di lunghe degenze o meritato riposo. Ma me garba mica stare sempre sano. Sono patologicamente sveviano e fumatore, quindi. Ogni mezz’ora il mio fegato metabolizza la sua giusta parte di quel composto azotato che chiamano nicotina e lo manda in circolo, diffondendolo ovunque, nel corpo. Dicono almeno un terzo raggiunga il cervello. Ora, la scienza ben sa quello che questo alcaloide causa agli apparati vari: respiratorio, gastrointestinale, cardiovascolare. Ma cosa faccia quando giunge al cerebro, quali meccanismi scateni, qui la scienza solo suppone.
Non c’è nemmeno da dubitarne: Resnais è mille volte più interessante e profondo di Wang, ma è Auggie Wren, nella sequenza iniziale di Smoke, a chiarirci tutto sulla confusione onirica che ci provoca la nicotina. Quando ci racconta di come Sir Walter Raleigh (avventuriero poeta corsaro ed esploratore, primo importatore della solanacea nicotiana dal nuovo mondo all’Inghilterra -immagino tu abbia già letto tutto di quel grande intenditore di baldracche pirati e corsari che fu Defoe senza aspettare il mio parere, ma se non l’hai fatto La vita e le imprese di Sir Walter Raleigh, Sellerio, 1993 è un ottimo inizio-, nonché protetto della regina Elisabetta) misurò brillantemente il peso del fumo. Pesa un sigaro, se lo fuma e poi ne pesa la cenere. La differenza ci dà il peso del fumo. Il valore esatto del nostro piacere è dato da una differenza inesistente. Come quando leggiamo: il piacere della lettura è una continua falsa sottrazione. Che alla fine ci lascia almeno con una prospettiva sulla vita. Che se non è la vita, non è comunque cosa da sottovalutare. È il potere, quello dei divieti (di fumare) che alimenta un’artificiosa dicotomia tra la vita e la lettura. Ammansendoci appunto letture degradanti, zuppe liofilizzate o precotte tutte con lo stesso sapore e sulle quali svetta, è ovvio, la superiorità effettuale della scadente serialità della nostra vita.
Ma leggere fumetti, fumetti veri, è ben altro. Leggere fumetti è quasi risolvere il problema che toglieva il sonno a Sant’Agostino: della differenza tra il testo visto nella mente e testo pronunciato dalla voce. Il fumetto è guardare le figure e le parole, sintesi tra significante e significato. Simulacro.
Quell’imprescindibile canaglia di Rousseau distingueva, in un saggio (ne ha scritte tante di fesserie, ma quello che i suoi detrattori metafisico-sifilitico-cattolici, per intenderci: da Nietzsche a Maritain, non gli perdoneranno mai, è di avere restituito all’esperienza sensibile il posto che le compete: cioè quello di unico mezzo possibile per accedere alla conoscenza) sull’origine delle lingue (Jean Jacques Rousseau, Saggio sull’origine delle lingue, Einaudi, 1989), tre differenti tipi di scrittura. Il primo si sarebbe basato sulla rappresentazione pittorica degli oggetti, il secondo sull’uso di caratteri convenzionali per trascrivere parole e frasi, il terzo non sarebbe stato altro che la scrittura alfabetica. Inutile sottolineare come agli occhi dell’illuminista al terzo tipo era da attribuire massima espressione di civiltà, mentre il secondo e il primo andavano via via degradando dal barbarico al selvaggio.
Che avrebbe detto Rousseau dei fumetti che di questi tre tipi di scrittura sono la sintesi: rappresentazione grafica, onomatopee e scrittura alfabetica? Sarebbe rimasto così convinto nei suoi pregiudizi o avrebbe ammesso che il tipo di scrittura non è un indice diagnostico del livello di una civiltà? Ma poi ci interessa veramente quello che avrebbe pensato Rousseau? Non è proprio il corvo, in un cedimento dantesco, a dire a Corto Maltese, quando questi gli chiede che penserà la gente vedendolo andare in giro con un corvo parlante: «Via, via Corto, proprio tu parli così… cosa ce ne importa della gente?» (Hugo Pratt, Sogno di un mattino di mezzo inverno, qualsiasi edizione Rizzoli Lizard).
Dice Pratt a proposito dei narratori che «i modi di esprimersi si differenziano, ma è identico lo sforzo creativo per raccontare una storia».
L’avevamo qui a due passi il pagano superamento della dicotomia agostiniana, la quadratura del cerchio, il senso aristotelico del nostro piacere. L’assoluta lampante leggerezza del leggere fumetti. «Nella mia testa testo e immagine vanno di pari passo… per me, oggi, la grafica parte dalla necessità di un tratto per andare verso l’imperativo della parola. È così che nasce il fumetto.» (citazioni prese da Il desiderio di essere inutile, Rizzoli Lizard, 1996).
Se le cose stanno così possiamo veramente dimenticarci Rousseau e tutte le gerarchie culturali. Infatti il problema adesso è conoscere qual è il vero peso del fum(ett)o.
Noi fumatori sappiamo.
Che il fumetto è simulacro. Ora devo per forza sgombrare il campo da ogni possibile fraintendimento. Nell’accezione corrente il termine simulacro ha valore negativo, di immagine/segno riproducente in modo incompleto il proprio referente; cioè di «oggetto che simula un altro oggetto, che lo rappresenta fintamente o falsamente» (Cortellazzo e Zorzi, Dizionario etimologico della lingua italiana, Zanichelli, 1988, vol. V, p. 1205). Ma il simulacro è soprattutto altro. È il segno che fa riferimento solo a se stesso, che non dipende in nessun modo da un oggetto esterno, e non deve la propria esistenza a un preciso referente. Il simulacro è un “segno anomalo”, che non significa nessun oggetto esterno a sé (Cfr. L’unico libro in cui Gianfranco Bettetini stranamente non dice cose già dette e meglio da altri, ma forse sono io che non ho ancora scoperto da chi ha copiato, Il segno dell’informatica, Bompiani, 1987, pp. 68 – 70; e soprattutto Fausto Colombo, Ombre sintetiche. Saggio di teoria dell’immagine elettronica, Napoli, Liguori, 1990, pp. 109 – 111).
In altre parole si può definire simulacro solo quel segno, o quell’immagine, che si presenta alla mente dell’osservatore senza suscitare implicazioni e rimandi di tipo referenziale. Per esemplificare: quando io leggo un fumetto, mettiamo un’avventura di Corto Maltese, l’immagine che mi comunica l’idea “Corto Maltese” non ha referenti esterni (se non un vago referente, inconsistente e non verificabile, nell’immagine mentale “Corto Maltese” di Pratt) oltre a “Corto Maltese”, al punto che si può affermare che il segno “Corto Maltese” non rappresenta ma è “Corto Maltese”. Il simulacro non significa, è.
Cerco di spiegarmi: strumento principale del fumetto è il disegno, che è un’immagine sintetica. Noi attribuiamo, se aveva ragione Barthes (e aveva ragione), all’intervento umano, lo stile, valore fortemente denotativo. Dunque nel disegno è impossibile la differenza tra la natura dell’oggetto disegnato e la cultura che lo interpreta. Nel disegno, dice sempre Barthes (ah, se ti stai chiedendo dov’è che lo dice: ne L’ovvio e l’ottuso), ogni cultura non pensa di vedere la rappresentazione di una propria idea, quanto proprio quell’idea. Nel fumetto insomma ogni immagine mostra solo se stessa. Non innesca cioè un processo di generalizzazione e di astrazione; quel processo che Mitry (in Esthétique et psychologie du cinéma. Les structures, Paris, Edition Universitaires, 1965) chiamava analogon. Per fare un esempio: un tavolo in un film western, non rappresenta solo quel tavolo, ma tutti i tavoli possibili. Nel cinema poi interviene un fattore ulteriore. Quando assisto a un film, non vedo solo un personaggio che rimanda al topos di quel personaggio (tutti i cattivi, tutti gli eroi romantici ecc.), ma vedo anche l’attore che lo interpreta, e non riesco (a meno che sia assolutamente sconosciuto) a cancellare la sua presenza. Mi spiego: ogni volta che mi guardo Taxi Driver non vedo solo il personaggio Travis Bickle (e per generalizzazione tutti i tassisti di New York), ma vedo anche De Niro che interpreta Travis Bickle.
Nei fumetti questo sdoppiamento è assente, ogni personaggio è soltanto se stesso. Questo significa che il fumetto è un costrutto assolutamente autoreferenziale e perciò completamente libero da ogni vincolo.
Un’altra cosa. In una raccolta di pensieri di Alejandro Jodorowsky, trovo questa affermazione: «…il lettore di comics è più attivo. Il cinema immobilizza lo spettatore; l’immagine si muove e lo spettatore resta fermo. Il comic invece sta immobile, e il lettore è quello che si muove, è differente. Nel comic, sei tu stesso a decidere se entrarci o no; puoi muovere le pagine alla velocità che vuoi, tornare indietro; sei tu a dare il ritmo, a ricreare la storia. È un’altra arte, che non ha niente a che vedere con il cinema» (P. Raschilla, Alejandro Jodorowsky. Il guerriero e il culo di George Harrison, in “Movie magazine“ ,n. 1, autunno 1993, p. 143 ).
È evidente che il fumetto, implicando un fatto quale la lettura, si avvicini ontologicamente molto più alla letteratura, soprattutto alla narrativa. Sul piano tecnico, riferendosi alle possibilità di intervento individuale sulla fruizione temporale della storia, non c’è differenza tra la lettura di un libro e quella di un comic book. La differenza c’è, invece, e grande, nei due modi di interagire con il segno. Qui le somiglianze si possono trovare più tra fumetto e pittura. Il segno grafico del fumetto è rigido, offre al lettore un simulacro preciso, che non permette liberi interventi. A meno che non si vogliano considerare certe modifiche grafiche, che soprattutto da bambini, si apportano – non senza un certo gusto sadico – alle pagine dei fumetti. Ricordo quando mi divertivo a disegnare barba e baffi al Piccolo Ranger, o a colorare, intervenendo con il mio personale universo cromatico, noiosissime storie di Tex Willer. Purtroppo l’età adulta ci priva di questa tensione a intervenire direttamente nel mondo diegetico e nella sua significazione, rendendoci pigri fruitori di storie alle quali non partecipiamo più (voglio dire in senso fisico, non emotivamente).
Per il segno letterario la cosa è diversa. Il segno narrativo è ambiguo, dicotomico, ricco di una gamma incredibile di sfumature e variazioni di significato, e richiede sempre, senza sosta, l’intervento della fantasia del lettore, per compiere una scelta. Anche la descrizione più completa e minuziosa richiede di essere completata dal lettore, che si deve costruire, con le informazioni che il segno gli ha fornito, un simulacro mentale del segno stesso. Voglio dire. Sono sicuro che la ‘mia’ Emma Bovary, il ritratto mentale che ne ho, è non solo diversissima da quella di chiunque altro abbia letto il romanzo, ma persino da quella dello stesso Flaubert.
È in questo senso che mi sento sufficientemente nel giusto, quando sostengo che il fumetto alla fine non si legge ma si guarda.
Insomma.
So che per Saussure il segnoera l’associazione di un concetto (significato) e di un’immagine acustica (significante). Ora però se penso a Corto Maltese, mi riesce impossibile scindere il concetto dall’immagine (qui non acustica ma grafica), e ancora più difficile mi riesce (anzi impossibile) il processo hjelmsleviano di andare alla ricerca degli elementi costitutivi del segno Corto Maltese. A meno di voler considerare figure hjelmsleviane ogni singolo tratto di pennello che compone il disegno Corto maltese, devo dire che nel fumetto il segno corrisponde alla figura. Cioè che il segno è l’elemento base costitutivo del fumetto.
Ora nel modo reale se non esistesse l’espressione per significare il contenuto (mettiamo: se non esistesse il suono acqua per indicare la materia acqua) potrei comunque affermarne l’esistenza grazie all’esperienza. È Bertrand Russell a dircelo: lui vede l’acqua e sa che l’acqua esiste.
Nel fumetto se non esistesse il segno Corto Maltese per indicare il concetto Corto Maltese, Corto Maltese non esisterebbe perché non potrei farne esperienza. Ma io vedo Corto Maltese e so che esiste. Perché quel Corto Maltese che vedo disegnato non è scindibile in un’immagine grafica e in un concetto. Quel segno Corto Maltese, non scindibile in figure perché già figura, è materia. O se vogliamo usare una categoria cara a Hjelmslev: senso. Dicendo che il fumetto è simulacro e che io lo guardo e non lo leggo intendo proprio questo.
E basta.
Non fa un cazzo da anni, ma è invecchiato lo stesso. Vive a Milano, e non potrebbe farlo in nessun’altra città italiana. Legge e parla di fumetti dal 1972 (anno in cui ancora non sapeva leggere). Ha una cattiva reputazione, ma non per merito suo. Ama e praticava la boxe, poi si è rotto. Beve tanto in compagnia di gente poco raccomandabile, tipo Paolo con il quale – per colpa di una di quelle bevute – si è ritrovato a curare QUASI.