E benvenuti alla seconda puntata della rubrica complementare del bassista da salotto, quella dove invece di raccordare le miserie della vita alle traversie della pratica musicale, si usano i libri e la musica al posto della pratica musicale del bassista. La base è sempre quella, un po’ come la gricia, se ci metti l’uovo fai la carbonara, con il pomodoro l’amatriciana.
Ho il sospetto che la nostra fame di identità (che si conferma anche quando cerchiamo di demolirla, non importa se l’abbiamo edificata noi stessi, l’abbiamo presa in prestito o ce l’hanno affibbiata) ci porti a gravitare inevitabilmente all’interno di uno spazio stilistico edificato intorno ad alcuni poli che rispondano all’esigenza di essere raccontabili ed esprimibili in modo rapido. E quindi non possono essere molti – certo, alcuni contano più di altri, sono irrinunciabili. Come dice l’Attore in Rosencrantz and Guildenstern Are Dead di Tom Stoppard:
The Player:
We’re more of the love, blood, and rhetoric school. Well, we can do you blood and love without the rhetoric, and we can do you blood and rhetoric without the love, and we can do you all three concurrent or consecutive. But we can’t give you love and rhetoric without the blood. Blood is compulsory. They’re all blood, you see.Guildenstern:
Is that what people want?The Player:
It’s what we do
Mi sa che purtroppo è andata così, mentre c’è gente che ha fatto fortuna e ha intrattenuto tanti con successo con le scorregge o tormentoni del tipo mmmbbbbuciodeculo!!! [cit. Boris – non Battaglia, eh!], son sempre cose non troppo distanti dal blood, in fin dei conti, il sottoscritto ha lasciato che prendesse sempre più campo quella voce, quella persona interiore che si è via via scoperta, come una sorta di Gautama superplebeo in chiave satirica, a riportare sempre, in continuazione, l’attenzione sulla dimensione miserabile dell’esistenza. Ma non quella biologica, ché alla fine con quella ci si può anche fare pace, ve lo garantisco, soprattutto se si hanno i giusti (ma severi) incentivi. No, sto parlando di quella man-made, quindi tendenzialmente evitabile e dispensabile, quella che rende la vita offesa. Il rimando a Minima Moralia è del tutto voluto – finirà che dovrò pure leggermelo per davvero, anche se con T.W. Adorno ho un rapporto conflittuale (minato, tra l’altro, da quelle brutte e parecchio ottuse considerazioni che l’uomo fece sul jazz). Però lui, e tutta la corrente che Paul Ricoeur definì, in modo piuttosto riduzionista (e quindi anche questo un po’ ottuso), come ermeneutica del sospetto mi suonano certo meglio dell’altra sponda, e qui la definizione la dobbiamo a Hans Georg Gadamer, quella dell’ermeneutica della fede. Qui dove siamo ora si fa, un po’ maccheronescamente, amicizia con la prima e si schifa la seconda. It’s what we do. E anche con una certa convinzione, perché, per quanto mi riguarda, l’ascendenza genealogica del sospetto è quella del dubbio, ed è una buona schiatta. Certo, produce, in output, affermazioni che sembrano incrinare un po’ tutto e minare alla base ogni possibile costruzione dell’identità, in modo impietosissimo, però provate a dirmi che non vi ritrovate in, per esempio, questa:
In molti individui appare già come una sfrontatezza che abbiano il coraggio di pronunciare la parola «io»
Il bello è che, anche se vi ci ritrovate, non è detto che non siate voi stessi uno di quegli individui. Chi potrà mai dirlo?
Comunque, personalmente arrivo agli autori del Novecento, raramente quello tardo, quando si parla di filosofia, con quasi nessuna eccezione, perché quella che ho è una formazione scolastica. Vi ricordate o no che sul manuale di storia la Seconda Guerra Mondiale dovevate leggervela per conto vostro perché non ci si arrivava mai e a giugno ci si salutava a colpi di gavettoni? Però, santa miseria, non perde trazione e applicabilità, in questa epoca, una visione che scaturisce dal pout pourri di filosofia mezza da liceo mezza da salotto, alimentata di brandelli vari di pensiero ermeneutico del sospetto.
Ma non siamo qui per T.W.
In preparazione a questa seconda uscita di rubrica a mutazione parziale, un certo imbarazzo su cosa ammannirvi ha perdurato fino a pochi giorni fa. Se per il primo colpo il binomio Tool–Pynchon era già chiaro da subito, per oggi ho dovuto attendere una sorta di illuminazione. Che, per grazia ricevuta, è giunta, in modo anche sorprendente, da zone della memoria pure un po’ confuse, per cui mi scuserete se gli innesti sulla cronologia della biografia del qui scrivente saranno molto labili. Ma ‘sti cazzi, diranno i miei non piccoli lettori – quella, senza offesa, è la parte meno interessante e che meno ci parla direttamente. Tu hai fatto cose, noi abbiamo fatto cose, se basiamo un’ipotesi di comunanza su questo tanto vale fare un’adunata di Norimberga. E non potrei essere più d’accordo. Io stesso sperimento una vivace sensazione di alienazione quando mi affaccio su viste curriculari della mia esperienza su questo pianeta. Davvero io sono questo?
L’illuminazione ha consistito di tre parole, l’ultima, addirittura, abbreviata: Hubert Selby Jr.
Ho conosciuto Selby grazie a un’eco non particolarmente stentorea, provo a ricostruirne il percorso. Da qualche parte negli anni Ottanta (verso la fine, grazie ai soliti wiki-aiuti) Uli Edel, il regista di Christiane F., aveva curato un film dal titolo Last Exit to Brooklyn, film che non vidi allora né in seguito, ma di cui ricordo incerti fotogrammi mnemonici dal trailer. Devo dire che mi piacevano i programmi e gli intermezzi in cui venivano trasmessi i trailer dei film in uscita. Di lì, passano sicuramente degli anni, non pochi, prima di ritrovarmi (è un tentativo presuntivo di ricostruzione) a bighellonare in libreria, invece di seguire lezioni all’università, dove devo quindi essermi imbattuto nel libro. Per avere una datazione dovrei averlo fisicamente sottomano, ma non è qui, perché dove vivo non c’è abbastanza spazio per tutti i miei libri (non che siano molti, è il posto che è proprio piccolo). Il critico Robert M. Adams, nel 1964, anno di pubblicazione di Last Exit, ebbe modo di scrivere, senza alcun intento denigratorio:
It is inconceivable that anyone will read Hubert Selby Jr.’s Last Exit to Brooklyn twice over.
Perché è uno di quei libri che colpisce più duro che può senza che gli si possa opporre difesa alcuna, se non quella del bigotto perbenismo. Con questo approccio vennero messe in atto varie misure di censura (in Italia, chevvelodicoaffa’, ma anche nel Regno Unito,per esempio) e di citazioni in giudizio per oscenità, pornografia e assedio al sentimento di decenza dei bravi cittadini timorati di Dio. Ma cosa avrà scritto mai di così terribile Selby? Tocca fare un passo indietro qui e recuperare una nota biografica del nostro autore di oggi.
Figlio di un marinaio mercantile, purtuttavia iscritto a un liceo prestigioso, molla la scuola e si mette a lavorare al porto, finendo per imbarcarsi intorno ai diciotto anni. Non per molto, però, perché si becca una bella tubercolosi – probabilmente acquisita dai bovini trasportati dalla nave su cui lavorava (tutta salute e grande qualità alimentare, tra l’altro…) – che lo porterebbe alla dipartita se non fosse per una sperimentazione con la streptomicina che gli consente di superare la malattia anche se al prezzo di complicanze ed effetti collaterali tutt’altro che leggeri. In sostanza, non saprei dirvi quanti e quanta parte di polmoni gli fosse rimasta dopo la chirurgia. Di lì in poi due cose segnano la sua vita: una capacità polmonare risibile, appunto, e la dipendenza dagli oppiodi (l’approccio alla farmacopea e alla posologia era un po’ diverso dagli standard odierni). Per oltre un decennio la sua vita è scandita dall’altalena tra diverse situazioni cliniche critiche, con degenze ospedaliere e domestiche, e possibilità pressoché inesistenti di avere un lavoro. Verso il ’58 decide di mettersi a scrivere e impiega un po’ meno di sei anni per comporre le storie che saranno raccolte in Last Exit. Quello che trovate dentro il volume sono le voci brutali, schiette, dirette, probabilmente molto poco filtrate, sicuramente non abbellite, della vita nelle strade della metropoli. Alcuni personaggi sono disperatamente lanciati all’inseguimento di sogni che vengono rapidamente schiacciati, stuprati e massacrati. Altri sono veri e propri carnefici, molti, i più, ottusi automi indifferenti, sullo sfondo di una New York brutta, sporca, violenta, disumanizzata e disumanizzante. Ma forse i due ultimi termini sono radicalmente erronei – è proprio dell’umanità com’è diventata in questi tempi generare mostruosità di questo tipo. Riprendiamo per un secondo solo T.W. e leggiamo:
La violenza su cui si basa la civiltà significa persecuzione di tutti a opera di tutti
Selby non ha scritto decine di volumi. Leggendolo si capisce perché. Certo, però, è riuscito nell’impresa titanica di divenire un autore cardinale nel panorama della letteratura occidentale, partendo da una condizione di un drastico handicap acquisito e di svantaggio sociale via via più marcato, in una società con poche reti di protezione come quella statunitense. Però per cambiare rotta dovette lasciare New York per Los Angeles – la dipendenza dall’eroina lo seguì ma fu un capitolo che riuscì a chiudere, mettendo su famiglia e divenendo anche un docente di scrittura creativa alla University of Southern California (e amico di Henry Rollins, aspetto non secondario).
Il libro di oggi, che è anche la colonna sonora di oggi e, eccezionalmente, il film di oggi, è Requiem for a Dream, opera di Selby del 1978 (quindi del periodo post-NY). Le vicende del libro, però, sono ambientate proprio a New York, non si scappa. Il sogno è al plurale, i quattro protagonisti sognano scenari piuttosto standard nel menu del sogno americano: Sara vuole più di ogni altra cosa apparire in televisione, suo figlio Harry, con la fidanzata Marion e l’amico Tyrone, sognano di far soldi, prima in modo legittimo, poi, abbastanza rapidamente, spacciando. Come potete immaginare le cose si introiano di brutto e Selby è il Gran Mogol dell’introiamento: Sara, ossessionata da come apparirà sullo schermo, accetta di prendere anfetamine per dimagrire – ne prenderà qualcuna più del necessario, giusto qualcuna, sprofondando nella psicosi. Harry, Tyrone e Marion, per sognare meglio, iniziano a farsi di eroina di brutto, il che aiuta sicuramente a non combinarne una giusta. Oltretutto, la forbice brutale che si apre è quella tra la dipintura favolesca del sognato e la morsa d’acciaio della realtà che sta stritolando i personaggi. Non c’è redenzione, tranquilli, tutta la storia funziona un po’ alla stregua della prostituta malmenata a morte in Last Exit: ci sono anche i ragazzini ad assistere e a partecipare attivamente, lanciando oggetti e schifezze varie – alla fine se ne vanno, semplicemente, annoiati. I personaggi di Requiem for a Dream non li aiuta nessuno, la nemesi che li condanna è il loro stesso stato di allucinazione – non che ci siano illuminati in giro, ma per permettersi dell’allucinazione ci vogliono risorse e capacità coercitiva e loro non ne hanno manco un po’. Salvo quella, dettata da un’astinenza che ha gioco facile a piegare le volontà, che provano a esercitarsi addosso l’un l’altro, rendendosi ancora più vulnerabili rispetto al mondo fuori. Finisce male male, ripeto. Spoilerando un poco: Harry si becca una cancrena perché i «buchi» si sono infettati, Tyrone finisce nella rete insieme a lui, forse perché non vuole mollarlo quando lo porta in ospedale, criminale fallimentare, Marion, una ragazza di buona famiglia (ancorché anaffettiva, la famiglia) che voleva fare la designer di moda, finisce per prostituirsi, ma con molto poco controllo, vista la sua dipendenza, e il pappone che la gestisce le fa fare cose veramente spiacevoli.
Se in Last Exit il mondo ritratto era quello a cavallo degli anni ’50 e ’60, imprigionato in dettami inscalfibili (essere di sinistra o omosessuali, per esempio, era impensabile), in Requiem siamo negli anni ’70 che ancora appartengono alla boom generation e a una filiazione di sogni che non sembra (neppure oggidì) essere ancora stata sostituita da qualcosa di integralmente diverso. Forse esiste una perversione ben più profonda di quella della devianza dalla norma invalsa, puntualmente definita sulla base di un’etica necessariamente puritana, forse questa perversione è quella di sentire di dover formulare (prendendolo da uno scaffale) un desiderio, un sogno, appunto, e farlo proprio e appuntarvi la propria ragion d’essere in un modo che però, presto o tardi, apparirà inautentico o, quantomeno, poco credibile. Ma magari è un buon feticcio, solo che la persecuzione di tutti a opera di tutti che cita T.W. è sempre in atto e non sai mai che immagine e percezione ti verrà restituita – quello che è certo è che più devii e più sarai impuro e indegno. Si può pensare che cadere e rialzarsi rappresentino la dinamica fondamentale della vita (come dice quel motto giapponese secondo il quale saremmo come le bambole Daruma, cadiamo sette volte e ci rialziamo otto) ma l’equazione non tiene conto di due forze instancabili: l’odio per la libertà altrui e l’amore per il degrado di sé, che potremmo anche definire come odio per la propria libertà. La società borghese ha costruito il palcoscenico perfetto:
Il borghese, tuttavia, è tollerante. Il suo amore per gli altri nasce dall’odio per ciò che potrebbero diventare.
Non ricordo se è venuto prima il libro o il film, di sicuro la colonna sonora era attaccata a quest’ultimo, però la triade è veramente compatta e solidissima in termini di «grana». Pare tutto immaginato e pensato fin dall’origine come un unico prodotto e invece parliamo di un arco temporale che supera i venticinque anni, dall’ideazione alla pubblicazione.
Il film lo fa Darren Aronowsky, alla seconda prova sul lungometraggio, dopo Pi (nel senso di pi greco), film auto- e friends&family-finanziato, grande successo, primo film a essere disponibile per il download via Internet, e prima di prendere una piega un po’ troppo ipertrofica con The Fountain (si sarebbe ripreso alla grande con The Wrestler, comunque). Il cast è perfetto, Sara è Ellen Burstyn, Harry Jared Leto (meglio come attore che come musicista, comunque fa anche quello con grande successo), Marion Silver è quello splendore (a.k.a «supertopolona bella e brava») di Jennifer Connelly (quando hai undici anni e la scopri in Labyrinth non hai che una possibilità, cadere mortalmente trafitto da Cupido), Tyrone Marlon Wayans. Le attrici brillano in particolare per livello di pura bravura, in imprese attoriali che non devono essere state per niente semplici: Jennifer Connelly, leggo, in preparazione delle riprese si ritirò a vivere nell’appartamento utilizzato nel film, studiando il più possibile droga, dipendenze e dintorni, mentre Ellen Burstyn fa quasi paura, al punto che non ti spiace veder sprofondare il suo personaggio, perché ti viene il timore che avresti potuto essere tu ma tu, no, non sei così stupido.
Il film fa da ponte all’elemento musicale perché la colonna sonora è scritta da Clint Mansell e eseguita con le armi del Kronos Quartet. Mansell ha già lavorato con Aronowsky ai tempi di Pi, per il quale aveva utilizzato uno stile decisamente drum’n’bass e stavolta invece punta, in termini di cifra stilistica, sul ruolo degli archi. Enter quindi il Kronos Quartet a eseguire trentatré differenti momenti sonori che accompagnano il declinare delle stagioni nei titoli dei capitoli del film, dall’estate all’inverno, con una combinazione di spietatezza e lirismo accessibile solo agli strumenti a corda, con una gamma di ambientazioni che arriva fino al terribile The Beginning of the End la colonna sonora dell’elettroshock di una Sara inquadrata in primissimo piano. Su tutto, espresso in vari registri, a seconda dei momenti, continua a tornare ineluttabile il tema principale esposto nel singolo Lux Aeterna. Lux Aeterna lo conoscete di sicuro, anche se forse non nella versione originale, perché dopo l’album sono usciti un profluvio di remix e versioni, alcuni registrati da Mansell altri no, utilizzati in millemila trailer di film e giochi (primo su tutti il trailer de Il Signore degli Anelli – Le Due Torri) e piantatisi in testa a tutti in modo irrimediabile. Al punto di intitolare un EP Requiem for a Tower.
Singolare che un tema nato per accompagnare una vicenda di ineluttabile discesa agli inferi sia divenuto la sonorizzazione epica buona un po’ per tutte le stagioni. Deve esserci una radice comune, se devo scommettere su quale sia nel poco tempo che mi è rimasto per scrivere (sono le 17:48 della domenica pomeriggio) direi che la caratteristica condivisa dall’epos come dallo Zerstörungsroman è che entrambi si fanno beffe della routine in cui quasi tutti viviamo incastrati.
Forse i personaggi del Requiem sono degli eroi anche se si buttano via malamente. «Non si dà vita vera nella falsa» dice Adorno e la storia di Selby potrebbe anche servire il proposito di sfidarci, di venire a cercare il moralista dentro di noi che gode della caduta miserevole dei personaggi, perché lui, lui sì, sa bene, benissimo, cosa invece si dovrebbe fare o non fare.
Da ultimo due cose. Un parallelismo che probabilmente mi è venuto naturale di stabilire è quello, ancorché parziale, tra Harry e il Barry Lyndon di Thackeray. Entrambi finiscono in disgrazia e mutilati, anche se nelle mani di narratori ben diversi, con motivazioni difformi nel rendere i rispettivi personaggi degli esempi. Nondimeno ecco quel gusto di consegnare alle Erinni le ambizioni eccessive di certi individui. Alla fine un moralista potrebbe trovare soddisfacente il Requiem nel leggere negli esiti il segno di una punizione, al contempo lasciandosi titillare, in particolare, dalla trasformazione di Marion in puttana inerme e presto usurata. E niente, al moralista, non importa che sia uomo o donna, piace sempre una buona dose di femminilità immorale brutalizzata e umiliata.
Secondo pensiero: lo spunto decisivo per dare il via a questa riflessione su modernità e barbarie, brutalità e normalità, nell’indifferenza attiva degli individui, me l’ha fornito una conversazione via messaggi con un amico musicista che lavora, anche, in una attività familiare, una pizzeria. Bene, una sera di queste, nella temperie da fuorituttiliberitutti delle settimane correnti, in pizzeria sono arrivate un po’ di classi di una scuola media con un tot di docenti, per festeggiare la fine dell’anno scolastico, un totale di circa sessanta umani. Le scene che mi sono state raccontate sono da brividi: ragazzini che giocano a calcio dentro la pizzeria lanciando la palla in cucina, schiamazzi, tentativi di pagare di meno perpetrati dai docenti (al grido di «siamo a posto così!»), sassi (sassi!) e bottiglie varie lanciate dai condomini dai piani superiori, camerieri allibiti, sconforto dei pochi, carnevale dei più.
Rispetto a dove vi trovate l’ultima fermata potrebbe non essere troppo più oltre.
Oggi abbiamo chiamato in causa una triade costituita da:
- Hubert Selby Jr., Requiem for a Dream, edizione italiana Fazi Editore, ce n’è anche una di Sur ma costa tre Euro in più e non ha Jennifer Connolly in copertina
- Il film di Darren Aronowsky, del 2000…
- … e la colonna sonora di Clint Mansell con Kronos Quartet, Nonesuch Records, 2000
Bonus, quello che alla fine andrete a riascoltarvi più spesso per gasarvi:
Le Prince d’Aquitaine à la tour abolie…
È un percorritore di sentieri interrotti, un professionista dell’amatorialità spinta, un fan della bassa visibilità. Ha studiato amenità umanistiche ma anche il bric-à-brac aziendale. Con il secondo riesce a pagarci i conti. Lettore compulsivo di TS Eliot, Céline, Pynchon, Heller, Vonnegut, PK Dick. Ciclista da strada incidentato, ormai dismesso, curriculum da improbabile sopravvissuto. Quando formarono la band era rimasto solo il basso e quello prese. Nei decenni si è rivelata una non-scelta piena di senso.