L’azienda in cui lavoravo era in una torre nell’area nord milanese. Tutte le mattine entravo nella hall del complesso e salutavo i due signori della vigilanza, in divisa e in odore di pensione, che ostentavano la consueta indifferenza. Prendevo un ascensore che mi conduceva al piano rialzato. Da lì un corridoio mi portava all’ingresso della seconda delle tre torri del complesso. Salivo su un altro ascensore che mi portava all’ultimo piano. Raggiungevo il mio ufficio, estraevo il laptop dallo zaino e lo accendevo. Una routine quotidiana confortevole e immodificabile. Sempre uguale.
A pensarci bene, la ripetitività tranquillizzante dei miei movimenti era l’indicazione più chiara della sensatezza della mia vita. Un serio professionista, con una famiglia modello, che svolgeva un lavoro rispettabile in un’azienda di consulenza di medie dimensioni.
Tutte le mattine, la sveglia suonava alla stessa ora e la procedura che mi ero imposto prevedeva che interrompessi il suono sgradevole con un unico movimento, riemergendo dal sonno, e mi recassi in bagno. Per tutta la durata della doccia mi ronzava in testa l’insopportabile motivo di una canzone che odio da quasi quarant’anni ma che ha i medesimi bpm della suoneria della sveglia. Di cattivo umore preparavo la colazione per tutta la famiglia. Consumavo la mia e andavo a svegliare mia moglie. Lavaggio denti, rapido commiato e via verso il solito tragitto fatto di auto, treno e metropolitana.
Il panorama di un pendolare è una consuetudine giocata su minuscole variazioni. Quando sollevavo gli occhi dal mio libro (ai tempi gli smartphone non esistevano ancora), notavo i lavori in corso, le riparazioni stradali, l’insegna di un negozio nuovo, le minuscole modifiche all’arredo urbano. Riemergevo dal trasporto sotterraneo all’altezza della stazione di Turro, là dove Milano si tinge di Sesto San Giovanni.
A quel punto, la routine prevedeva l’acquisto dei giornali e delle riviste, la colazione nel solito bar («Un cappuccino senza cacao e una brioche con la marmellata, per favore»), l’incontro con qualche collega e un cortese scambio di banalità e indifferenza. Fino all’ingresso delle torri.
Esattamente vent’anni fa.
Una mattina come tutte le altre.
Il copione della vita quotidiana recitato con la studiata bravura di un professionista. L’abitudine mi fa inghiottire tutto. Mi sento addirittura normale. Il tempo scorre rapido e indolore. Il mondo è immutabile. Posso addirittura ricostruire con ragionevole certezza il succedersi degli eventi di quella mattina: qualche riunione, qualche screzio, una presentazione powerpoint, un paio di fogli di calcolo, una cinquantina di mail gestite con accettabile approssimazione. Poi è l’ora di pranzo. Monto in ascensore e raggiungo il piano -1, dove c’è un servizio mensa. Afferro il vassoio, prendo un secondo, un’insalata di carote e una bottiglia d’acqua naturale. Alla cassa confermo che poi berrò anche il caffè e pago. Mi fermo al banco dei condimenti per dare un senso alle carote e poi raggiungo il tavolo dove i miei colleghi sono già seduti. Chiacchiere inutili, cazzeggio, un paio di pettegolezzi. Si ride, anche. Tutti insieme raggiungiamo il bancone del bar e prendiamo i caffè. Il tempo di tornare su, riconquistare confidenza con la tastiera, perdersi in un paio di siti.
Succede l’imprevisto. Tony, un amico oltre che un collega, spalanca la porta, facendomi sobbalzare colpevole, come sempre succede quando arriva qualcuno e io non sto lavorando. È pallido e balbetta. I suoi difetti di pronuncia sono ancora più accentuati, mentre mi racconta un disastro inverosimile: un aereo ha colpito una delle torri gemelle a New York. Mi alzo e lo seguo. Raggiungiamo l’area break che si sta riempiendo rapidamente di colleghi. Sul grande schermo del televisore appeso alla parete, una colonna di fumo si leva da un cratere in cima a una delle due torri del World Trace Center. Nessuno capisce niente. Sbigottiti, ma non ammutoliti, ci facciamo domande idiote alle quali nessuno può avere risposta. Mentre guardiamo, un proiettile da sinistra si infila nel secondo grattacielo. Cosa cazzo sta succedendo?
Da quel momento i miei ricordi si fanno confusi. Devo ricorrere alle informazioni in rete per ricostruire la sequenza degli eventi, dei crolli delle torri, delle fiamme, dei corpi terrorizzati che si lanciano dai grattacieli, dell’ulteriore aereo contro il Pentagono, della comprensione della natura terroristica degli attacchi, dell’assurdità di aerei di linea, come quelli che prendeva ciascuno di noi per muoversi nel mondo, usati come missili per colpire la nostra normalità, dove faceva più male.
Quando attraversiamo il mondo, privi di consapevolezza e cercando conforto nell’abitudine, tutto ciò che vediamo diventa ambiente. Gli edifici, quelli molto alti soprattutto, raccontano le contraddizioni dell’umanità: da un lato vogliamo ostinatamente cambiare il mondo, alterandone la superficie e la spazialità; dall’altro dimentichiamo subito lo stupore e, nel volgere di pochissimo tempo, adagiamo lo sguardo sul panorama dimenticandoci i fremiti che quelle strutture colossali ci avevano regalato. Proprio come Nabucodonosor II vogliamo soddisfare le volontà dei nostri padri e costruire torri maestose sospese tra inferno e paradiso: «le sue fondamenta devono poggiare nel cuore degli inferi e la sua sommità deve rivaleggiare o eguagliare i cieli». E proprio come chi viveva all’ombra della zikurrat di Babilonia, ci rifugiamo nelle consuete bassezze umane.
L’ultimo posto in cui mi sono recato quotidianamente per lavoro, poco prima che la pandemia trasformasse il sogno dello smart working in un obbligo schifoso, era nei pressi del quartiere Citylife. Sono passato tutti i giorni sotto quelle tre torri per molti mesi. Raggiungevo l’ufficio a piedi, proprio per guardarle. Una delle tre l’ho vista crescere, un giorno dopo l’altro; estendere la propria struttura di metallo e cemento verso l’azzurro con l’evidente obiettivo di rivaleggiare con i cieli. Mi divertivo a rilevare le piccole evoluzioni quotidiane, le modifiche quasi impercettibili. Pareva di partecipare alla crescita di un grattacielo filmata “a passo uno”. Tutti i giorni levavo lo sguardo verso le impalcature e sentivo quello che doveva provare Ray Harryhausen mentre muoveva l’idra sul set de Gli argonauti.
Poi anche l’ultima torre è stata completata. Come da progetto è stata coronata da un grande logo e adesso è lì, immutabile, pronta a definire la linea del nostro sguardo. Con quella forma che si avvita nelle profondità degli inferi e si sviluppa lambendo il cielo, quelle tre torri ora mi sembrano vezzose e manieriste. Vogliono suggerire movimento, ma sono noiosamente immobili. Quei tre edifici costruiti all’insegna del dinamismo meneghino sono sempre uguali. Per quanto cerchino di accendere la mia immaginazione, e benché io ci provi (e ci provi, e ci provi), non mi danno più alcuna soddisfazione.
Rick Veitch ha trascorso cinquanta dei suoi settant’anni di vita a fare fumetti. Si è mosso nell’industria statunitense del comic book lambendo tutte le possibilità: underground e mainstream, adattamenti di film e partecipazioni a serie per le etichette maggiori, narrazioni revisioniste dei supereroi e racconto in presa diretta dei sogni, graphic novel e autoproduzioni… In questo momento è tra i primissimi autori a sperimentare – con risultati apprezzabili – Amazon come piattaforma di autoproduzione. Da qualche anno, appoggiandosi sul colosso del commercio elettronico con il marchio Sun Comics, realizza corposi albi in bianco e nero che definisce “Panel vision”: centinaia di pagine composte di una sola vignetta che gli permettono uscite frequenti, dal formato indistinguibile da quello chiamato “graphic novel” e a costo contenuto.
Prima di questa esperienza, nel 2006, ha pubblicato, con la linea Vertigo di DC Comics, Can’t Get No, un libro a fumetti a sviluppo orizzontale composto da 350 pagine di racconto. È la storia del dolore profondo e radicale che, da decenni, si colloca al centro delle narrazioni, sempre politiche, di Veitch.
Chad Roe è un imprenditore di successo. La sua azienda commercializza un prodotto incredibile, il pennarello indelebile definitivo. Una volta che sia stato tracciato un segno con uno dei suoi “ultra-permanent markers”, è impossibile rimuoverlo. Il prodotto diventa immediatamente popolare tra i graffitari che lo usano per ricoprire gli edifici di segni impossibili da rimuovere: le denunce e le multe iniziano a fioccare e quella che sembrava una storia di successo si trasforma in una disfatta. La pochezza dell’esistenza di Chad emerge quando due giovani artiste, dopo una sbornia colossale presa per sedare il dolore del fallimento imminente, lo portano nella loro casa in stato di incoscienza. Lo spogliano e ricoprono ogni centimetro della sua pelle di disegni con il pennarello indelebile. Un tatuaggio integrale, rapido e indolore, che trasforma radicalmente la vita di Chad Roe. Da quel momento il mondo perfetto, ritmato da un’abitudine che si è fatta normalità reale, si sgretola e mostra la sua inutilità: rapporti commerciali basati sull’apparenza, un matrimonio effimero incentrato sull’equilibrio tra due forme di indifferenza, una vita costretta da claim pubblicitari che invitano ad avere tutto, ad averlo in fretta.
Tutti questi eventi accadono poche ore prima che il Boeing 767 che serve il volo di linea “American Airlines 11” si schianti contro la torre nord del World Trade Center. Il disastro aereo, il dolore, la sete di vendetta, l’osceno scontro di civiltà quasi non compaiono nel fumetto di Rick Veitch. Le torri sono un’assenza dolorosa, rappresentata meravigliosamente da due colonne luminose che affettano la notte in una piana desertica sulla copertina del libro.
In un libro dal significato articolato, dalla narrazione criptica, dalla prosa verbosa e assillante, in cerca di poesia (che in più di un’occasione induce a una noia quasi rabbiosa), il lettore si perde in un gioco ambiguo e difficile da dipanare. Proprio come la vita. E, un pezzo alla volta, emerge che tutte le verità raccontate – nel libro e nel mondo – sono solo effetti di superficie. Basta trovare il prodotto giusto e non esistono eventi indelebili. Tutto può essere rimosso dal mondo, dallo skyline, dalla pelle, dalla coscienza.
E alla fine si torna sempre al punto di equilibrio. Quello più comodo. Fatto di ripetitività, conforto, ritualità, sensatezza, rispettabilità, dovere e abitudine.
Scrive e parla, da almeno un quarto di secolo e quasi mai a sproposito, di fumetto e illustrazione . Ha imparato a districarsi nella vita, a colpi di karate, crescendo al Lazzaretto di Senago. Nonostante non viva più al Lazzaretto ha mantenuto il pessimo carattere e frequenta ancora gente poco raccomandabile, tipo Boris, con il quale, dopo una serata di quelle che non ti ricordi come sono cominciate, ha deciso di prendersi cura di (Quasi).